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Nota 85

Rivastigmina

Galantamina

Donepezil

Antagonisti del recettore per il glutammato:

Memantina

 


La prescrizione a carico del SSN, su diagnosi e piano terapeutico delle Unità di Valutazione Alzheimer (UVA), individuate dalle Regioni e dalle Province Autonome di Trento e Bolzano, è limitata a:

  • pazienti con malattia di Alzheimer
    • di grado lieve, con MMSE tra 21 e 26 (donepezil, rivastigmina, galantamina)
    • di grado moderato, con MMSE tra 10 e 20 (donepezil, rivastigmina, galantamina, memantina)
    • di grado severo, con MMSE <10 (memantina)

Ai CDCD è affidato il compito di effettuare o, eventualmente, confermare una diagnosi precedente e di stabilire il grado di severità in accordo alla scala MMSE.

Il piano terapeutico deve essere formulato sulla base della diagnosi iniziale di probabile demenza di Alzheimer di grado lieve, moderato e severo (per le forme di grado severo prima dell’inizio del trattamento: limitatamente a memantina). La risposta clinica dovrà essere monitorata presso i CDCD ad intervalli regolari dall’inizio della terapia:

  • a 1 mese, per la valutazione degli effetti collaterali e per l’aggiustamento del piano terapeutico
  • a 3 mesi, per una prima valutazione della risposta e per il monitoraggio della tollerabilità: la rimborsabilità del trattamento oltre i 3 mesi deve basarsi sul non peggioramento, sulla base del giudizio di efficacia nel contesto di una valutazione clinica complessiva
  • ogni 6 mesi per successive valutazioni della risposta e della tollerabilità

* Nei casi di stabilità clinica, il rinnovo del Piano Terapeutico potrà avvenire entro un massimo 12 mesi (o eventualmente prima su segnalazione del MMG)


Background

La demenza, una delle principali cause di disabilità e di disagio sociale per il mondo occidentale, rappresenta una priorità assistenziale la cui rilevanza, soprattutto in termini di costi sociali, è destinata ad aumentare nei prossimi anni a causa del progressivo invecchiamento della popolazione associato anche all’aumento dell’aspettativa di vita. Stime di prevalenza indicano che, rispetto al 2001, nei paesi dell’Europa occidentale ci si dovrà aspettare un incremento del 43% del numero di persone affette da demenza entro il 2020, e del 100% entro il 2040. Considerando la malattia di Alzheimer o demenza di Alzheimer (DA), la più frequente tra le cause di demenza (43-64%), il numero stimato di pazienti nella popolazione italiana ultrasessantacinquenne del 2001 è di 492.000 (range 357.000-627.000), con una prevalenza del 3,5% (IC 95% 2,5-4,5), mentre la sua incidenza è di 23,8 per 1000 anni/persona (IC 95% 17,3-31,7).

Gli inibitori reversibili dell’acetilcolinesterasi (AChE) e la memantina sono gli unici farmaci approvati in Italia per il trattamento della DA. Attualmente, gli inibitori dell’AChE presenti in commercio sono donepezil, rivastigmina e galantamina, con indicazione registrata nella DA di grado lieve-moderato. La memantina è registrata per il trattamento della DA “da moderata a grave”. La premessa su cui si è basata l’introduzione in commercio di questi farmaci era la dimostrazione di una loro efficacia nel ritardare il declino cognitivo e funzionale associato alla DA, a fronte di un buon profilo di tollerabilità. Tali premesse sembrano però non essere confermate dai risultati di recenti revisioni sistematiche e di uno studio controllato di ampie dimensioni. Da questi studi risultano di dubbia rilevanza clinica i benefici statisticamente significativi emersi utilizzando sia strumenti di valutazione globale sia scale cognitive.


Evidenze disponibili

Donepezil, rivastigmina e galantamina sono stati confrontati con il placebo in numerosi studi randomizzati controllati (RCT), mentre solo pochi RCT hanno confrontato le diverse molecole di inibitori dell’AChE tra loro (NICE, NG97, Published: 20 June 2018).

Revisioni sistematiche hanno sintetizzato i risultati degli RCT che hanno confrontato donepezil e placebo (Birks e Harvey, Cochrane Database of Systematic Reviews 2018). Rispetto al placebo il donepezil somministrato al dosaggio di 5 o 10 mg/die per periodi che vanno da 3 a 12 mesi produce un miglioramento cognitivo statisticamente significativo. Utilizzando il Mini Mental State Examination (MMSE, punteggio massimo 30 punti) la differenza osservata è di 1,05 punti a favore del donepezil, mentre utilizzando la sezione cognitiva della scala a 70 punti Alzheimer Disease Assessment Scale (ADAS-Cog) si osserva un miglioramento di 2,67. Il quadro clinico globale valutato mediante la scala a 7 punti Clinician’s Interview Based Impression of Change (CIBIC plus) dicotomizzata (nessun cambiamento o peggioramento vs miglioramento) o attraverso la scala Clinician’s Global Impression of Change (CGIC) migliora in una % maggiore di pazienti trattati con donepezil rispetto a placebo (OR: 1.92). Gli effetti avversi più frequenti associati all’uso del donepezil sono di tipo colinergico: diarrea e nausea. L’interruzione della terapia prima della fine del trial è significativamente maggiore tra i trattati con donepezil rispetto a quelli con placebo, e la probabilità di eventi avversi è maggiore con donepezil rispetto al placebo (OR 1.6).

Lo studio AD 2000, finanziato dal servizio sanitario britannico, merita una considerazione particolare in quanto ha il follow-up più lungo mai realizzato su pazienti affetti da AD in trattamento con inibitori dell’AChE (3 anni), ed è uno dei pochi RCT pubblicati ad avere considerato come outcome primario il rischio di istituzionalizzazione. Dei 565 pazienti affetti da AD di grado lieve-moderato, 282 sono stati assegnati a trattamento con donepezil e 283 a placebo; 292 pazienti sono stati seguiti per 60 settimane e 111 fino a 114 settimane. I risultati mostrano che il rischio di istituzionalizzazione dei pazienti sottoposti a trattamento con donepezil non differisce significativamente da quello dei pazienti del gruppo placebo (rischio relativo 0,97; IC 95% 0,72-1,30 p = 0,80). Anche combinando il rischio di istituzionalizzazione e di progressione della disabilità non sono state osservate differenze significative tra donepezil e placebo (rischio relativo 0,96; IC 95% 0,74-1,24 p = 0,70). Anche per gli altri outcome considerati dallo studio (sintomi comportamentali, psicopatologia dei caregiver, costi assistenziali, tempo non retribuito impiegato dai caregiver per l’assistenza al malato, eventi avversi o decessi, dosi diverse di donepezil) non sono state osservate differenze statisticamente significative rispetto al placebo. I pazienti in trattamento con donepezil hanno mostrato nelle prime 12 settimane un miglioramento medio di 0,9 punti del MMSE e di 1 punto della scala funzionale Bristol Activities of Daily Living (BADLS). NOTA 85 Successivamente, entrambi i gruppi (donepezil e placebo) hanno mostrato un ritmo analogo di peggioramento nel tempo. Durante lo studio, 167 pazienti hanno sospeso in cieco il trattamento con donepezil senza mostrare particolari problemi dopo l’interruzione. Gli autori dello studio hanno inoltre effettuato una valutazione economica mostrando che, nell’ambito del servizio sanitario britannico, la terapia con donepezil non produce sostanziali riduzioni dei costi assistenziali per i pazienti con DA. In sostanza lo studio ha confermato i risultati dei precedenti RCT sugli inibitori dell’AChE, dimostrando che l’uso di donepezil produce un miglioramento dei punteggi nelle scale cognitive e funzionali, ma ha messo in dubbio la rilevanza clinica di questi outcome e la costo-efficacia del farmaco. Una revisione sistematica Cochrane aggiornata al 2003 ha analizzato i risultati di 8 RCT (pubblicati e non) sulla rivastigmina. Rispetto al placebo, il farmaco somministrato a dosi di 6-12 mg/die produce, al termine di un follow-up di 26 settimane, un miglioramento cognitivo quantificabile in 2,1 punti alla ADAS-Cog e un miglioramento funzionale pari a 2,2 punti della Progressive Disability Scale (PDS) nell’attività della vita quotidiana. Nausea (ARI = 17%) e vomito (ARI = 14%) sono gli effetti avversi più comunemente associati alla terapia e causano il 9% in più di sospensioni del trattamento rispetto al placebo. Per quanto riguarda la galantamina, una revisione sistematica che ha incluso 8 trial, di cui 6 pubblicati, mostra un miglioramento cognitivo (testato mediante la scala ADAS-Cog) e globale (scale CIBIC plus o CGIC) rispetto al placebo a dosi comprese tra 16 e 36 mg/die in soggetti con DA di grado lieve-moderato. L’effetto sulla sfera cognitiva sembra aumentare con la durata del trattamento, che tuttavia negli studi considerati non supera i 6 mesi. Fino al 20% dei pazienti trattati con galantamina presenta effetti avversi di tipo colinergico, che causano più frequentemente del placebo sospensioni della terapia (ARI = 14%). Due metanalisi, pubblicate nel 2004 e nel 2005, hanno analizzato in maniera cumulativa i risultati di RCT di confronto tra i vari inibitori dell’AChE ed il placebo. Sostanzialmente, le conclusioni dei due lavori sono simili: nei pazienti con DA il trattamento con inibitori dell’AChE produce benefici statisticamente significativi sia utilizzando strumenti di valutazione globale (scala CIBIC plus o la scala GCI), sia quando si utilizzano scale cognitive (ad es. la ADAS-Cog). L’effetto terapeutico sul quadro clinico globale degli inibitori dell’AChE rispetto al placebo è del 9% (IC 95% 6-12), corrispondente a un number needed to treat (NNT) di 12 (IC 95% 9-16). Ciò significa che per ottenere un miglioramento clinico globale di qualsiasi entità in un nuovo paziente è necessario trattare 12 pazienti. L’analisi dei dati di sicurezza, cioè il calcolo del number needed to harm (NNH), porta a stime analoghe: ogni 12 pazienti trattati con inibitori dell’AChE (IC 95% 10-18) si avrà un nuovo paziente con effetti avversi. Per quanto concerne la sicurezza di questi farmaci considerati globalmente, la proporzione dei pazienti trattati che interrompe la terapia è maggiore che nel gruppo placebo (ARI = 8%), particolarmente a causa di effetti avversi (ARI = 7%). L’apparente “pareggio” tra benefici e rischi, in termini di NNT e NNH, va interpretato considerando l’importanza di un potenziale guadagno in termini di deterioramento clinico in un paziente affetto da DA a fronte della comparsa di effetti avversi che, pur potendo portare in molti casi a una sospensione del trattamento, sono reversibili e non gravi. L’entità del miglioramento clinico globale è tuttavia modesta, e la sua ricaduta su esiti assistenziali rilevanti, quali il carico assistenziale per i caregiver o un ritardo nella istituzionalizzazione del paziente, resta ancora da chiarire.

Negli studi principali che dimostrano l’efficacia della memantina in soggetti con DA di entità moderata (Peskind et al., 2006; Backchine, 2007; Porsteinsson et al., 2008), le scale di valutazione coprono sia il dominio cognitivo che quello funzionale. Lo studio di Peskind et al. (2006) ha mostrato un vantaggio della memantina sul placebo sia per le scale cognitive che per quella funzionale. Analogamente, le indagini di Backchine (2007) hanno evidenziato una risposta significativa in ambito cognitivo e funzionale, mentre la valutazione di Posteinsson et al. (2008) ha offerto un vantaggio del farmaco che però non è risultato significativo. In tutte e tre le indagini condotte la sicurezza della memantina è apparsa soddisfacente.

Implicazioni cliniche dei recenti risultati

Tra i pazienti affetti da DA la percentuale attesa di responder alla terapia con inibitori dell’AChE o con memantina, intesi come individui che mostrano un qualsiasi miglioramento accertabile mediante una scala clinica globale, è circa del 10%.

Si ricorda, a tal proposito, che la malattia di Alzheimer può essere suddivisa nei seguenti stadi di gravità: lieve (MMSE 21-26), moderato (MMSE 10-20), moderatamente severo (MMSE 10-14) e severo (MMSE <10). La Nota 85 autorizza la prescrizione degli inibitori dell’AChE (donepezil, rivastigmina e galantamina) per la DA lieve e moderata, e della memantina per la DA di grado moderato e severo. Poiché non vi è modo di individuare in anticipo i pazienti che risponderanno alla terapia, una possibile strategia prescrittiva – adottata dall’Agenzia Italiana del Farmaco e da altre istituzioni estere, come il britannico National Institute for Clinical Excellence (NICE) – consiste nel decidere la prosecuzione del trattamento sulla base della risposta clinica a 3 mesi: solo i pazienti che dopo 3 mesi di trattamento non peggiorano o mostrano un miglioramento sulla base di un giudizio clinico complessivo rispetto alla baseline saranno candidabili a continuare la terapia.

Pur senza togliere importanza alla scelta di strumenti idonei a monitorare lo stato cognitivo e funzionale, l’aspetto sostanziale da considerare quando si interpretano i risultati degli studi sugli inibitori dell’AChE e sulla memantina nella DA riguarda la rilevanza clinica delle differenze osservate. Tutti gli RCT pubblicati, eccetto pochi tra cui lo studio AD 2000, hanno considerato come outcome primario una variazione del punteggio di scale cliniche che consentono quantificazioni formali di deterioramento cognitivo, globale o funzionale. Questa scelta nasce dal fatto che, per ottenere l’approvazione di un farmaco come agente antidemenza, la Food and Drug Administration americana richiede la dimostrazione di una differenza significativa rispetto al placebo, utilizzando una delle suddette scale. Come già accennato in precedenza, non è tuttavia chiaro se ai miglioramenti rilevati mediante questi outcome surrogati corrisponda un beneficio anche su misure di esito più rilevanti per i pazienti con DA.

Sulla base di una revisione sistematica e metanalisi degli RCT disponibili in letteratura, la linea guida dell’EFNS-ENS/EAN raccomanda l’utilizzo in combinazione di inibitori dell’acetilcolinesterasi e memantina in pazienti con DA da moderata a severa (Schmidt et al, 2015); tuttavia la forza della raccomandazione è debole, per via della imprecisione della stima dell’effetto. Il NICE raccomanda (raccomandazione 68, NG97, Published: 20 June 2018) in persone con diagnosi definita di AD che sono in trattamento con AchEI.

  • considerare l’aggiunta di memantina in caso di malattia moderata;
  • offrire memantina in aggiunta a un inibitore AChE nei casi di malattia severa.

numerosi studi di safety post marketing su vaste popolazioni di pazienti hanno confermato un profilo beneficio/ rischio favorevole.
A causa della loro azione farmacologica, gli inibitori della colinesterasi possono avere effetti vagotonici sulla frequenza cardiaca (es. bradicardia). E’ stata segnalata la possibilità di un prolungamento dell’intervallo QTc e di torsioni di punta nell’ECG di pazienti con Malattia di Alzheimer trattati con inibitori delle colinesterasi, in particolare in associazione con l’utilizzo di altri farmaci con effetto sul QTc o che inducono bradicardia, in presenza di malattia cardiaca pre-esistente rilevante o di squilibri elettrolitici (vedi quanto riportato nelle relative schede tecniche ai paragrafi 4.4, 4.5 e 4.8; Malone et al, 2020).

La valutazione critica delle prove di efficacia che hanno promosso gli inibitori dell’AChE e la memantina all’attuale ruolo nella terapia della DA insieme con le più recenti revisioni sistematiche e studi clinici portano a dover tenere conto che:

  • rispetto al placebo, nei pazienti affetti da DA, la terapia disponibile produce benefici cognitivi e funzionali di modesta entità;
  • questi benefici hanno ricadute lievi su esiti clinicamente e socialmente più rilevanti, come il rischio di istituzionalizzazione, la progressione della disabilità e il carico assistenziale per i caregiver;
  • la percezione di efficacia che ha portato alla registrazione e alla rimborsabilità di queste molecole è nata dalle conclusioni positive di singoli RCT i cui risultati potrebbero essere stati distorti a favore degli inibitori dell’AChE in conseguenza di discutibili scelte metodologiche riguardanti il disegno dello studio e l’analisi dei dati. Il principale limite alla completezza e applicabilità delle evidenze provenienti da RCT è la mancanza di dati a lungo termine, poiché solo pochi RCT presentano una durata superiore a 6 mesi.
  • L’analisi della sicurezza consiglia di monitorare l’occorrenza di allungamento del QTc come predittore di possibile complicanza e indicatore di rischio di sviluppo di torsione di punta.

Particolari avvertenze

La risposta clinica dovrà essere monitorata ad intervalli regolari:

  • a 1 mese, per la valutazione degli effetti collaterali e per l’aggiustamento del piano terapeutico;
  • a 3 mesi, per una prima valutazione della risposta e per il monitoraggio della tollerabilità; solo i pazienti che dopo 3 mesi di trattamento non peggiorano o mostrano un miglioramento sulla base di un giudizio clinico complessivo rispetto alla baseline saranno candidabili a continuare la terapia;
  • l’andamento clinico nei primi mesi di terapia è fortemente indicativo dell’andamento a più lungo termine;
  • ripetuta ogni 6 mesi per successive valutazioni della risposta e della tollerabilità. Nei casi di stabilità clinica, il rinnovo del Piano Terapeutico potrà avvenire entro un massimo 12 mesi (o eventualmente prima su segnalazione del MMG)

In aggiunta a ciò è opportuno ricordare che il trattamento deve essere interrotto nel caso di scarsa tollerabilità o scarsa compliance e in tutti i casi in cui, secondo il giudizio dell’unità valutativa, il beneficio clinico sia insufficiente per giustificare una continuazione della terapia. Le modalità dell’interruzione sono a giudizio clinico del CDCD. Se il paziente progredisce a una forma severa (punteggio MMSE uguale o inferiore a 10) occorre valutare attentamente l’opportunità di proseguire il trattamento, sulla base della valutazione del profilo beneficio/ rischio su base individuale (O’Brien; 2017, British Association for sychopharmacology; NICE, NG97, Published: 20 June 2018).
Si consiglia monitoraggio periodico con ECG per valutazione del QTc in particolare per i pazienti con: disturbi del ritmo cardiaco, malattia cardiaca pre-esistente rilevante e/o in politerapia con farmaci che possono influenzare il QTc o che inducono bradicardia o in presenza di squilibri elettrolitici

I Centri per i Disturbi Cognitivi e le Demenze dovranno garantire:

  • la capacità di valutare il paziente con disturbi cognitivo-comportamentali seguendo un percorso diagnostico strutturato;
  • la capacità di mantenere un contatto ed una interazione costante con il Medico di Medicina Generale in modo da assicurare la continuità dell’assistenza sanitaria al paziente.

Per la diagnosi di demenza di Alzheimer probabile si suggeriscono i criteri NIA-AA, 2011 (Mc Khann 2011).


Bibliografia

  1. Riassunto delle Caratteristiche del prodotto Aricept (donepezil)
  2. Riassunto delle caratteristiche del prodotto Ebixa (memantina)
  3. Riassunto delle caratteristiche del prodotto Exelon (rivastigmine)
  4. Riassunto delle caratteristiche del prodotto Reminyl (galantamina)
  5. Agenzia Italiana del Farmaco. Alzheimer e inibitori delle colinesterasi: c’è qualcosa di nuovo? Bollettino d’Informazione sui Farmaci 2006; 13: 19-25.
  6. Birks JS e Havrey RJ: Donepezil for dementia due to Alzheimer’s disease. Cochrane Database Syst Rev 2008.
  7. Courtney C, et al.; AD2000 Collaborative Group. Long-term donepezil treatment in 565 patients with Alzheimer’s disease (AD2000): randomised double-blind trial. Lancet 2004; 363: 2105-15.
  8. Drugs for Alzheimer’s disease. Therapeutic Letter 2005; www.ti.ubc.ca/PDF/56.pdf (accesso verificato il 22/11/2006).
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  11. Kaduszkiewicz H, et al. Cholinesterase inhibitors for patients with Alzheimer’s disease: systematic review of randomised clinical trials. BMJ 2005; 331: 321-7.
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  16. Peskind, et al. Memantine treatment in mild to moderate Alzheimer’s disease: a 24-week randomized, controlled trial. Am J Geriatr Psychiatry 2006; 14: 704-15.
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  19. Schmidt R et al,. EFNS-ENS/EAN Guideline on concomitant use of cholinesterase inhibitors and memantine in moderate to severe Alzheimer’s disease. Eur J Neurol. 2015 Jun;22(6):889-98.
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PIANO TERAPEUTICO NOTA 85 (PDF) (dal sito medisoc.it)


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