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Il termine deriva dall’inglese “to mob“, e viene usato per indicare il comportamento aggressivo di alcune specie animali che, per allontanare un membro indesiderato del gruppo, lo circondano minacciosamente.

il termine “mobbing” indica una serie di comportamenti o avvenimenti posti in essere dal datore di lavoro, anche con il coinvolgimento di altri elementi dell’organizzazione, al fine di danneggiare il sottoposto rendendo penosa e gravosa la persistenza sul posto di lavoro.

L’autorevole autore Field, nel 1996, così definiva il mobbing: attacco continuato e persistente nei confronti dell’autostima e della fiducia in sé della vittima. La ragione sottostante tale comportamento è il desiderio di dominare, soggiogare, eliminare; la caratteristica dell’aggressore è il totale rifiuto di farsi carico di ogni responsabilità per le conseguenze delle sue azioni 

Il concetto di mobbing presuppone comunque che si tratti di comportamenti reiterati e sistematicamente ripetuti.

La Corte di Cassazione sezione V penale, con la sentenza 33624/2007 ha affermato:  “… La condotta di mobbing suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell’esprimere l’ostilità del soggetto attivo verso la vittima sia nell’efficace capacità di mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro …”.

Sulla scorta di sentenze ed esperienze, come indicato anche dalla “Relazione Tematica” della Corte di Cassazione (2008), possiamo indicare numerosi comportamenti che rientrano nella fattispecie del comportamento “mobbizzante”, sempre naturalmente che esistano la reiterazione e la sistematicità:

a) pressioni o molestie psicologiche;
b) calunnie sistematiche;
c) maltrattamenti verbali ed offese personali;
d) minacce od atteggiamenti miranti ad intimorire ingiustamente od avvilire, anche  in forma velata ed indiretta;
e) critiche immotivate ed atteggiamenti ostili;
f) delegittimazione dell’immagine, anche di fronte a colleghi ed a soggetti estranei all’impresa, ente od amministrazione;
g) esclusione od immotivata marginalizzazione dall’attività lavorativa ovvero svuotamento delle mansioni;
h) attribuzione di compiti esorbitanti od eccessivi, e comunque idonei a provocare seri disagi in relazione alle condizioni fisiche e psicologiche del lavoratore;
i) attribuzione di compiti dequalificanti in relazione al profilo professionale posseduto;
l) impedimento sistematico ed immotivato all’accesso a notizie ed informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro;
m) marginalizzazione immotivata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e di aggiornamento professionale;
n) esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo nei confronti del lavoratore, idonee a produrre danni o seri disagi;
o) atti vessatori correlati alla sfera privata del lavoratore, consistenti in discriminazioni.

Per inciso, non è da considerare mobbing il trasferimento di un lavoratore in un altro reparto, anche cambiando le mansioni fino ad allora svolte, purchè tale comportamento non possa essere fatto rientrare in un più ampio comportamento vessatorio, ma in ogni caso l’onere della prova è a carico del lavoratore (confronta sentenza cassazione 18580/2007).

Un concetto importante è quello della “finalità” del mobbing; il comportamento vessatorio infatti può essere provocato da “esigenze aziendali”, nel senso di un tentativo di costringere un lavoratore indesiderato alle dimissioni dal suo posto di lavoro o per allontanarlo da un certo ramo aziendale, ma non sono rare cause personali, cui sottendono, ad esempio, ricatti in materia sessuale o allontanamento di percepiti potenziali pericoli per il proprio ruolo nell’azienda.

La persistenza di un comportamento vessatorio è in grado di produrre disturbi psico-fisici al lavoratore, in particolare nell’ambito delle psico-patologie, con comparsa di una sintomatologia caratterizzata generalmente da ansia, depressione, attacchi di panico, fobie, turbe del sonno, turbe della sfera sessuale, turbe del comportamento alimentare (anoressia-bulimia), abuso di sostanze psicoattive ed alcolici; non infrequenti le azioni volte al suicidio.

A queste sono da aggiungere la non infrequente comparsa di una sintomatologia organica, in genere psicosomatica, ma spesso con correlati anatomo-patologici di grave entità; sono descritte aritmie cardiache, ipertensione arteriosa, eritemi cutanei, turbe digestive e dell’alvo (stipsi-diarrea),  cefalea, alterazioni del ciclo mestruale (amenorrea), ed altro.

Questa pagina è dedicata alle problematiche in ambito INAIL, quindi mi soffermo ulteriormente sul riconoscimento dei danni psico-fisici  provocati al lavoratore delle attività vessatorie aziendali, e sul conseguente risarcimento nell’ambito delle malattie professionali.

In effetti, i danni “risarcibili” provocati dal mobbing sul lavoratore possono essere molteplici:

  • danno economico,
  • danno esistenziale,
  • danno biologico

Nell’ambito della tutela INAIL viene risarcito solo il danno biologico, secondo le indicazioni del DL 38/2000.

Le modalità con cui può essere posto in essere il mobbing, riconoscibile come meritevole di tutela nell’ambito delle malattie professionali, vengono definite dall’INAIL con l’espressione “costrittività organizzativa“.

Nella circolare INAIL n. 71/2003 vengono specificate queste modalità:
Marginalizzazione dalla attività lavorativa
– Svuotamento delle mansioni
– Mancata assegnazione dei compiti lavorativi, con inattività forzata
– Mancata assegnazione degli strumenti di lavoro
– Ripetuti trasferimenti ingiustificati
– Prolungata attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto
– Prolungata attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a eventuali condizioni di handicap psico-fisici
– Impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie
– Inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro
– Esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale
– Esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo.

Questa lista rappresentava per l’INAIL un elenco in un certo senso chiuso: patologie psichiatriche e/o organiche insorte a seguito di forme diverse potevano non essere riconosciute come di competenza INAIL, cioè non nell’ambito del rischio lavorativo tutelato.

Con la sentenza del TAR Lazio n. 5454/2005, questa circolare è stata annullata in quanto, trattandosi di patologie non tabellate, cioè non facenti parte della “tabella delle malattie professionali nell’industria e nell’agricoltura“, l’INAIL non poteva inserire dei paletti in senso positivo o negativo; quindi non poteva essere indicata una possibilità di riconoscimento automatico, ove sussistessero certi parametri, ma nemmeno poteva respingere il caso in assenza di queste condizioni. Il lavoratore quindi, se è in grado di provare l’esistenza di un nesso causativo tra i comportamenti dell’azienda (mobbing) e le sue patologie, ha diritto all’accesso delle tutele INAIL

In realtà, a ben vedere, esistono però certe forme di mobbing che devono essere ricondotte alla patologia dei rapporti interpersonali e quindi eventualmente rientrano nella tutela di altre forme giuridiche, civili o penali, ma non in quella INAIL (molestie sessuali o comportamenti ricattatori ad esempio).

I soggetti che, a seguito di un comportamento aziendale rientrante nell’ambito della “costrittività organizzativa” hanno avuto l’insorgenza di malattie psichiatriche e/o somatiche, possono inoltrare la richiesta di malattia professionale.

Il primo passo è il rilascio, da parte di un medico (qualunque medico) del “primo certificato di malattia professionale”.

Quindi si dovrà inoltrare l’istanza alla sede INAIL di residenza, consiglio con l’assistenza di un Patronato.

l’INAIL quindi opererà un accertamento su più binari, da una parte valutando la reale sussistenza del comportamento aziendale in senso mobbizzante, dall’altra l’esistenza della patologia denunciata e il possibile nesso causale con i comportamenti denunciati.

All’eventuale riconoscimento del rischio segue quindi l’approfondimento diagnostico delle infermità denunciate e la valutazione del danno biologico conseguente.

E’ possibile proporre ricorso rispetto alle valutazioni INAIL, nella forma della visita collegiale, con l’assistenza di un medico-legale, la cui assistenza, tramite l’intervento di un Patronato, può anche essere a titolo gratuito (ma non per questo professionalmente meno valida).

Il ricorso può essere proposto sia in caso di riconoscimento delle malattie denunciate quale “malattia professionale”, per richiedere una percentuale di danno biologico maggiore, sia in caso di mancato riconoscimento.

RISORSE

In QUESTA pagina è possibile accedere ad alcune sentenze, per adesso poche per la verità, riguardanti il mobbing.

Dott. Salvatore Nicolosi





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