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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO – SENTENZA n. 239/2003

Presidente Mileo

relatore De Matteis

Pm Napoletano

ricorrente O. e altri – contro ricorrente Inail

Svolgimento del processo
A.O. e M.S., dipendenti della Htm Sport srl, hanno chiesto al pretore di Treviso la condanna dell’Inail alla corresponsione di rendita per inabilità temporanea assoluta, rispettivamente di giorni tredici e di giorni dieci, per infortunio o malattia professionale, assumendo di avere contratto tendinite acuta alla mano ed all’avambraccio destri, con conseguenteinabilità assoluta, la prima per aver rifilato con un coltello, per l’intero turno lavorativo del 19 marzo 1995, speciali plastiche di particolari durezza e resistenza, la seconda per aver spinto, per l’intero turno lavorativo del 14 febbraio 1995, tappi negli scafi di scarponi mediante una graffettatrice.
La loro domanda è stata respinta prima dal pretore, con sentenza del 16 settembre 1997, e poi, in sede di appello, dal Tribunale di Treviso, con sentenza 303/99.
Sulla scorta della consulenza medico-legale disposta dal pretore, il tribunale ha escluso la configurabilità di infortunio sul lavoro, per mancanza di una causa violenta, neppure dedotta dalle lavoratrici.
Ha quindi esaminato la domanda sotto il profilo della malattia professionale, escludendone la sussistenza, sia, in negativo, per la mancanza di un rischio professionale specifico, sia, in positivo, perché entrambe le ricorrenti hanno sofferto di tenovaginiti reumatiche, ma che potrebbero spiegare anche gli episodi per cui è causa.
Ha rilevato la singolarità della fattispecie, in cui l’evento lesivo è indicato come conseguente ad una sola giornata di lavorazioni particolari.
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per Cassazione le due assicurate, con unico motivo, illustrato da memoria ai sensi dell’articolo 378 Cpc.
L’intimato istituto si è costituito con controricorso, resistendo.

Motivi della decisione
Con unico motivo di ricorso le ricorrenti, deducendo violazione e falsa applicazione degli articoli 2, 68 Dpr 1124/65; 112, 441, 42, 445 Cpc; 41 Cpc; motivazione insufficiente e contraddittoria in ordine a punti decisivi della controversia (articolo 360, numero 5 Cpc), censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la sussistenza di una causa violenta.
Ricordano i vari enunciati della giurisprudenza di questa corte in tema di sforzo, secondo cui: a) non occorre uno sviluppo di forza muscolare eccedente quella richiesta dal normale e abituale atto lavorativo; b) la predisposizione morbosa non esclude il nesso causale tra sforzo ed evento infortunistico, in applicazione del principio di equivalenza causale di cui all’articolo 41 Cp.
Su tali premesse, censurano l’accertamento di fatto del tribunale, sia perché contraddittorio con le circostanze, ritenute pacifiche dallo stesso giudice (che per tale motivo non ha ammesso le prove ritualmente richieste), relative alle lavorazioni svolte, alla loro durata ed alla diagnosi formulata al pronto soccorso dall’ospedale di Montebelluna, sia perché ha omesso di considerare gli aspetti epidemiologici; a tale riguardo sottolineano che tutte e quattro le lavoratrici (le due ricorrenti più altre due che avevano fatto acquiescenza alla sentenza di rigetto) con problemi reumatici alle articolazioni impegnate negli atti lavorativi, soffrivano di tendiniti.
Il motivo, nelle sue due articolazioni, è fondato.
Poiché le ricorrenti censurano esclusivamente le statuizioni della sentenza impugnata relative alla mancanza di causa violenta, la loro domanda, e gli eventuali vizi della sentenza impugnata, vanno esaminati sotto tale profilo, con esclusione di qualsiasi riferimento alla tendinite come malattia professionale.
La sentenza impugnata è inficiata in primo luogo nella parte in cui nega la deduzione della causa violenta, perché la deduzione di un evento come infortunio sul lavoro implica la deduzione dell’esistenza di una causa violenta; avendo le ricorrenti descritto compiutamente i fatti che a loro avviso integrano l’infortunio sul lavoro, hanno assolto i loro oneri di allegazione, essendo demandato al giudice valutare se tali fatti integrano tutti gli elementi per qualificarli come infortunio, tra cui la causa violenta.
Avendo il tribunale escluso, per tale motivo essenzialmente processuale, la possibilità di esaminare l’esistenza di una causa violenta rilevante per un eventuale infortunio sul lavoro, è passato ad esaminare la possibilità di una malattia professionale, ed in tale contesto ha, da una parte, negato un lasso di tempo sufficientemente lungo per giustificare una malattia professionale, dall’altro ha manifestato la propria concezione della causa violenta quale evento traumatico, ritenuto nella specie inesistente.
Tale nozione di causa violenta, posta a base della sentenza impugnata, è erronea.
L’espressione causa violenta risale alla legge 80/1898 (articolo 7), istitutiva dell’ assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro nel nostro Paese, ma il suo significato giuridico si è profondamente evoluto durante il secolare processo di sviluppo del sistema di tutela infortunistica.
Alle origini tale espressione evocava in modo innocente ed appropriato il carattere traumatico delle cause meccaniche che costituivano la categoria prevalente di fattori infortunistici, secondo lo sviluppo tecnologico del tempo e lo spettro, limitato, di attività protette.
Coerentemente la dottrina di inizio secolo richiedeva che la causa violenta, esterna al lavoratore, esprimesse una energia abnorme con una abnorme intensità.
La giurisprudenza ha ridotto la portata di tale affermazione, ritenendo che non sono indispensabili i requisiti della straordinarietà, accidentalità e imprevedibilità del fatto lesivo, perché non richiamati nella previsione normativa, e ha definito tralaticiamente la causa violenta come un’azione rapida e concentrata nel tempo, che agisce dall’esterno, in modo da recare danno all’organismo del lavoratore (Cassazione 5514/89; 2634/90; 5198/94; 5602/94). In tal modo sono fissati gli elementi che tradizionalmente individuano la nozione di causa violenta: l’efficienza causale, la esteriorità, la rapidità e concentrazione.
I primi due elementi sono stati sottoposti a profonda revisione. La relativa elaborazione si è sviluppata particolarmente su uno dei temi di confine,e per tale motivo di maggiore emersione giurisprudenziale, quello dello sforzo.
Che lo sforzo muscolare possa costituire causa di infortunio è riconosciuto legislativamente già dall’articolo 26 regio decreto 1765/35, ora articolo 91 Testo unico 1124, che disciplina l’ipotesi dell’ernia infortunio.
Il problema concerne il grado dì “violenza” della causa lesiva richiesto in rapporto agli atti operativi normali tipici delle mansioni del lavoratore.
Parte della dottrina e della giurisprudenza di merito ritenne che lo sforzo, per configurarsi come causa violenta, dovesse implicare l’impiego improvviso, imprevisto ed abnorme di energia, cioè lo sviluppo di energia superiore a quella richiesta da un normale atto di forza; non sarebbe pertanto identificabile con il comune impiego della forza muscolare richiesta dalla natura stessa di un determinato lavoro.
Viceversa la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto in un primo tempo che lo sforzo richieda una erogazione di energia fisica concentrata nel tempo, per vincere una forza antagonista, pur rientrante nell’ambito delle condizioni abituali e tipiche di lavoro (Cassazione 5198/94; 300/88; 5966/88); e non richiede quindi la eccezionalità o la straordinarietà della manovra; esso, infine, non è escluso da una preesistente condizione patologica del lavoratore (Cassazione 2639/90).
Fino a questo momento, la necessità del carattere esterno della causa violenta non era messo in dubbio: in tema di sforzo (in particolare nelle frequenti fattispecie di sforzo da sollevamento di pesi), la forza antagonista esterna era individuata nella forza di gravità.
È con l’elaborazione in tema di infarto che tale elemento ha iniziato ad essere messo in crisi.
Questa Corte ha considerato come infortuni sul lavoro le seguenti fattispecie: il decesso per infarto di un guardiano antincendio, in considerazione delle condizioni lavorative abituali e del suo stato di salute (Cassazione 5966/88); la crisi infartuale letale di un conducente di autobus extraurbano che aveva continuato nello sforzo di guida dopo un primo malore (Cassazione 12798/00); l’infarto occorso ad un conducente di treno, in occasione dell’ improvviso attraversamento dei binari da parte di una persona, a causa dello stress ricollegabile al timore dell’investimento della medesima (Cassazione 9888/88); ha investito il giudice del merito del compito di indagare se l’infarto, intervenuto nella fattispecie presso il domicilio del lavoratore poco dopo la conclusione dell’attività lavorativa, fosse ricollegabile in maniera specifica, sia pure in un quadro di predisposizione patologica e di abitudini lavorative e di  vita, alle prestazioni intense e stressanti compiute per alcuni giorni dal lavoratore stesso, funzionario direttivo di una organizzazione sindacale, (Cassazione 14085/00).
Infine, la giurisprudenza di legittimità più recente ha francamente ammesso che il carattere violento della causa va individuato nella natura stessa dell’infarto, dove si ha una rottura dell’equilibrio dell’organismo del lavoratore concentrata in una minima frazione temporale (Cassazione 13982/00; 14805/00; 7822/00 citata, 12798/00 e 13741/00), anche se per effetto di una serie di atti accumulati sfociati infine nell’infarto. Pertanto è riconoscibile un’eziologia lavorativa ogni volta che sia accertato che gli atti lavorativi compiuti, ancorché non caratterizzati da particolari sforzi e non esulanti dalla normale attività lavorativa esercitata dall’assicurato, abbiano avuto l’efficienza di un contributo causale, anche concorrente, nella verificazione dell’infarto.
Ma, come risulta dalla decisione sopra citata (Cassazione 9888/98), la causa violenta può coincidere con la mera percezione di un pericolo; può risiedere quindi in un fatto psichico,’e quindi interno alla persona.
Il processo di riduzione della nozione di causa violenta alle mere condizioni lavorative abituali, e di interiorizzazione della stessa, già di per sé evidente nella giurisprudenza di legittimità, sopra riassunta, è stato portato a compimento dalla giurisprudenza costituzionale, con la sentenza 137/89, con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, terzo comma, numero 27, del Dpr 1124/65, in relazione all’art. 4, numero 1, dello stesso Dpr, per contrasto con gli articoli 3 e 38 Costituzione, nella parte in cui non comprende tra le persone soggette all’assicurazione obbligatoria i ballerini e i tersicorei ballerini di fila) addetti all’allestimento, prova ed esecuzione di pubblici spettacoli. È evidente l’incidenza di siffatta pronuncia sull’evoluzione delle nozioni sia di causa violenta, sia di sia di rischio assicurato; essa implica che la causa violenta si risolve nella stessa gestualità del lavoratore.
Così precisati i caratteri della causa violenta in relazione ai tradizionali requisiti della esteriorità e del dispendio di energia, la storica funzione della causa violenta, quale discrimine tra infortuni sul lavoro e malattie professionali, è ora affidata agli ulteriori caratteri della rapidità e della concentrazione, tanto più che il medesimo fattore (ad esempio energia nucleare) può costituire alternativamente causa di infortuni sul lavoro o di malattie professionali, a seconda se agisca in maniera massiva e concentrata nel tempo oppure diluita e lenta.
Nella ipotesi cennata dell’infarto, come in quella di scuola delle infezioni microbiche e virali, vi è infatti e comunque un punctum temporis in cui si concentra la lesione determinante l’infortunio: nell’infarto, la rottura del muscolo cardiaco, anche se quale momento dì saturazione di precedenti noxae accumulate; nell’infezione, come penetrazione dell’agente estraneo nell’organismo umano, nel quale esplode la sua virulenza. Per lo stesso motivo viene considerata infortunio sul lavoro la morte lenta da asfissia a seguito di crollo di galleria; analogamente per i ballerini vi è brusco movimento corporeo nel quale, a seguito della pronuncia citata, si deve ora individuare la causa violenta.
Nella soluzione di tale problema viene in soccorso la dottrina, la quale, per le fattispecie di azione concentrata nel tempo, ma non identificabile in un punctum temporis, ha individuato la “unità cronologica” – rilevante per la sussistenza del requisito della concentrazione – nel turno di lavoro, quale limite perché si possa parlare di causa violenta di infortunio.
Si deve conclusivamente affermare il seguente principio di diritto, necessario per la soluzione della presente controversia: «Poiché dei tradizionali caratteri che individuavano la causa violenta, l’abnormità dell’energia dispiegata e la sua esteriorità sono evoluti verso i normali atti lavorativi, la necessaria funzione di discrimine della causa violenta tra infortuni sul lavoro e malattie professionali è ora affidata alla rapidità e concentrazione della causa le quali, in mancanza di elementi più specifici, vanno individuate nell’unità cronologica costituita dal turno di lavoro».
È inoltre fondata la doglianza di violazione del principio di diritto, ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui sia per gli infortuni sul lavoro, sia per le malattie professionali, vale il principio di equivalenza causale stabilito dall’articolo Cp (Cassazione 8165/01; 535/98; 1196/98). La sentenza impugnata, avendo escluso la sussistenza di una causa violenta, non ha esaminato se la lavorazione svolta abbia avuto una incidenza, anche solo concausale, sulle patologie riscontrate.
Il ricorso va pertanto accolto, la sentenza impugnata cassata, e gli atti trasmessi alla Corte di appello di Venezia, la quale, attenendosi al principio di diritto sopra enunciato, accerterà se la lavorazione espletata dalle ricorrenti abbia svolto, secondo la scienza medica, un ruolo causale o concausale sulla tendinite lamentata; essa provvederà altresì alle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Venezia.
Roma, 14 maggio 2002.
Depositata in Cancelleria  il 10 gennaio 2003.



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