Vai al contenuto

Suprema Corte di Cassazione, sentenza n.7367/2001

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

SENTENZA

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

(Presidente: Saggio; Relatore: Prestipino)

Con ricorso del 9 dicembre 1991 XX conveniva davanti al Pretore del lavoro di Roma l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli infortuni sul Lavoro- INAIL e l’ACEA S.a.A. (ora ACEA s.p.a), della quale era dipendente, ed esponeva che, essendo stata adibita ad eseguire mansioni lavorative al di fuori del luogo di lavoro, per la trattazione di pratiche amministrative presso pubblici uffici, il 20 novembre 1989 aveva subito un incidente stradale, dal quale erano derivati danni gravi e permanenti alla sua persona, mentre si stava recando a bordo del proprio ciclomotore presso gli uffici del CORECO in Roma.

La ricorrente chiedeva, pertanto, che l’INAIL fosse condannato a corrisponderle l’indennità per l’inabilità temporanea e la rendita per l’invalidità permanente e che l’ACEA fosse condannata, ai sensi dell’art. 2087 c.c., a risarcirle tutti gli altri danni causati dall’infortunio.

Costituitisi in giudizio, i due convenuti contestavano la fondatezza delle pretese avversarie, di cui chiedevano il rigetto, eccependo, in particolare, che XX, per spostarsi in città, aveva usato un mezzo (il ciclomotore) senza essere stata autorizzata dalla datrice di lavoro.

Con sentenza del 7 luglio 1993 il Pretore rigettava il ricorso e questa decisione, impugnata da XX, veniva confermata dal Tribunale di Roma con sentenza del 5 novembre 1998.

Il giudice di appello, premesso che l’incidente era avvenuto durante l’orario di lavoro e nell’ambito dello svolgimento delle mansioni affidate all’A. e richiamati i principi di diritto enunciati in materia dalla giurisprudenza di legittimità, osservava che l’infortunio si era verificato in conseguenza del rischio c.d. elettivo posto in essere dalla lavoratrice, la quale, per recarsi al CORECO, aveva usato il proprio ciclomotore senza averne ottenuta la preventiva autorizzazione da parte dell’azienda datrice di lavoro, considerato oltre tutto che, come si ricavava dagli accordi sindacali aziendali, il personale dipendente poteva essere autorizzato solamente all’impiego dell’automezzo di proprietà.

In base a questi rilievi il Tribunale affermava che non esisteva sia l’obbligazione dell’INAIL alla corresponsione delle provvidenze assicurative, sia la responsabilità della datrice di lavoro, non essendo l’evento dannoso riconducibile alla condotta posta in essere da quest’ultima.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione XX, nei confronti sia dell’INAIL che dell’ACEA, in base a quattro distinti motivi.

I due enti intimati hanno resistito con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con i motivi primo, secondo e terzo dell’impugnazione, che per ragioni di connessione vanno congiuntamente esaminati, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1124 d.p.r. 30 giugno 1965 n. 1124 [1], 4, 5, 12, 16, 21 e 22 d.lgs. 19 ,settembre 1994 n. 626 e 2087 c.c., oltre a vizi di motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma n. 3 e 5, c.p.c. e lamenta che il Tribunale non abbia accolto la domanda da essa proposta nei confronti di entrambi gli enti intimati.

Al riguardo XX deduce: che, fermo l’accertamento compiuto dal Tribunale, secondo cui l’infortunio si era verificato durante l’orario di lavoro e nell’ambito dello svolgimento delle mansioni affidate alla lavoratrice, lo stesso Tribunale non ha considerato che si era realizzato il rischio specifico, dato che la prestazione lavorativa consisteva, con carattere di normalità, nello spostamento della medesima lavoratrice da un ufficio all’altro, esterni al luogo di lavoro, e dato che la necessità della locomozione era nota alla datrice di lavoro; che, poiché l’ACEA l’aveva autorizzata, in un periodo sia precedente, sia successivo al giorno in cui era avvenuto l’incidente, a utilizzare propri mezzi per gli spostamenti in città, non poteva avere rilievo l’uso dell’uno o dell’altro mezzo, non essendole stato imposto l’impiego dei veicoli pubblici, il che dimostrava che era legittimo del mezzo più idoneo, avendone la datrice di lavoro accettato il rischio; che, avendo essa chiesto, in epoca precedente all’incidente, l’autorizzazione ad usare un proprio mezzo, nelle more dell’autorizzazione la datrice di lavoro era venuta meno all’obbligo di imporre o di indicare l’uso di un mezzo determinato, con la conseguenza che, essendo mancato un espresso divieto, l’utilizzazione del ciclomotore non poteva essere considerato come rischio estraneo alle mansioni espletate, anche perché la responsabilità del datore di lavoro, in caso di infortunio del lavoratore, viene meno solamente se quest’ultimo pone in essere una condotta imprevedibile, esorbitante dal procedimento di lavoro e incompatibile con il sistema di lavorazione; che, avendole assegnato compiti da svolgere fuori dal luogo di lavoro, l’ACEA era consapevole che ricorreva una situazione di pericolo più specifica rispetto al personale adibito a mansioni interne e, ciò nonostante, non aveva fatto nulla per evitare il rischio insito nelle mansioni attribuitele, il che dimostrava la responsabilità della medesima a norma del suddetto art. 2087 c.c., considerato, inoltre, che le norme contenute nel d.lgs. n. 626 del 1994 impongono al datore di lavoro di informare i lavoratori sui sistemi di sicurezza ed escludono la suddetta responsabilità solamente se sia provata una condotta anomala, esorbitante ed imprevedibile del lavoratore, nella quale non può farsi rientrare l’uso di un ciclomotore.

Tutte queste censure sono prive di fondamento.

Come questa Corte ha da tempo e costantemente affermato, l’ipotesi dell’infortunio in occasione di lavoro (nonché per causa violenta) prevista dall’art. 2 d.p.r. 30 giugno 1965 n. 1124, dalla quale sorge, in concreto, il diritto alla tutela previdenziale obbligatoria, si verifica quando sussiste un nesso di causalità fra l’attività lavorativa e il sinistro, da intendersi nel senso che l’evento dannoso deve dipendere non tanto da una relazione cronologica o topografica o, comunque, da un qualsiasi collegamento con la prestazione di lavoro, quanto dal rischio specifico proprio o improprio, e cioè dal rischio che è insito nello svolgimento delle mansioni attribuite al lavoratore o che è inerente ad attività che, pur essendo accessorie, sono immediatamente connesse o strumentali alla esecuzione delle suddette mansioni, ivi comprese quelle necessarie per gli spostamenti dell’assicurato, mentre vale ad escludere la ,tutela assicurativa l’esistenza di un rischio elettivo (cfr., fra le sentenze ‘più recenti, Cass. 7 novembre 2000 n. 14454, Cass. 9 ottobre 2000 n. 13447 e Cass. 18 settembre 2000 n. 12325).

E, come è stato pure più volte asserito, vi è rischi elettivo, tale da escludere l’indennizzabilità del sinistro, quando l’evento lesivo è determinato da una particolare situazione nella quale il lavoratore è venuto a trovarsi per scelta volontaria, puramente arbitraria, che lo ha indotto ad affrontare un rischio diverso da quelli attinenti all’attività lavorativa (Cass. 16 dicembre 1999 n. 8269).

Nel caso in esame il giudice di appello, dopo aver escluso che nella fattispecie dedotta in giudizio ricorresse l’ipotesi dell’infortunio in itinere, dato che lo spostamento dell’A. fuori dall’ambiente di lavoro era stato determinato non già dalla necessità di raggiungere il luogo di lavoro dalla sua abitazione (o viceversa), ma da precise istruzioni impartitele dai suoi dirigenti in relazione allo svolgimento delle mansioni che le erano state attribuite, ha correttamente richiamato i principi di diritto sopra enunciati e, per mezzo di un accertamento di fatto compiuto mediante la valutazione del materiale probatorio acq1uisito alla causa, ha stabilito che l’infortunio era dipeso dal rischio elettivo posto in essere dalla lavoratrice ed escludente quello specifico.

Il Tribunale ha, infatti, rilevato che XX era rimasta coinvolta nell’incidente stradale mentre si recava in un pubblico ufficio, per l’espletamento di una determinata pratica, a bordo del proprio ciclomotore, il cui uso non solo non era stato autorizzato dall’ACEA, ma era da considerarsi addirittura arbitrario, come si ricavava dagli accordi stipulati con le organizzazione sindacali in sede aziendale, dai quali risultava che fra i mezzi (di proprietà personale) di cui poteva essere consentito l’utilizzo da parte del personale dipendente vi erano solamente gli autoveicoli.

Tenuto conto di queste argomentazioni, ineccepibili sotto il profilo giuridico e immuni da qualsiasi vizio logico, del tutto inconferenti sono le censure formulate dalla ricorrente, la quale, oltre tutto, nemmeno contesta l’accertamento di fatto compiuto dal Tribunale, per la cui confutazione bastano le seguenti considerazioni: …: posto che la datrice di lavoro non aveva concesso alcuna autorizzazione per l’uso del ciclomotore, che non era autorizzabile in base agli accordi sindacali, la lavoratrice doveva esimersi da tale uso nè, come è evidente, occorreva un preciso divieto in tal senso da parte dell’Azienda; non era certo la datrice di lavoro che doveva indicare quali fossero i mezzi idonei allo spostamento della lavoratrice, evidente essendo che tali spostamenti potevano realizzarsi o con i veicoli di pubblico trasporto posti a disposizione di tutti gli utenti o con i mezzi di proprietà della lavoratrice dei quali fosse stato preventivamente autorizzato l’impiego; i suddetti veicoli pubblici, al tempo in cui non era stata ancora evasa la richiesta di XX di usare un proprio mezzo, erano più che sufficienti per garantire la sicurezza della medesima, tanto più che il loro uso sarebbe stato tale da far sorgere il rischio specifico con esclusione di quello elettivo; la nozione di rischio elettivo comprende proprio quel tipo di comportamento del lavoratore che, per usare le parole della ricorrente, esorbitando dal procedimento di lavoro ed essendo incompatibile con il sistema di lavorazione, integra gli estremi di una condotta anomale ed imprevedibile; come correttamente anche su questo punto della causa è stato rilevato nella sentenza impugnata, l’accertata esistenza del rischio elettivo, causato da una condotta del lavoratore avulsa dallo svolgimento dell’attività lavorativa o esorbitante dai suoi limiti, esclude non solo la tutela assicurativa, ma anche la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c., per i danni subiti dal medesimo lavoratore (v., fra le tante sentenze, Cass. 15 aprile 1996 n. 3510 e Cass. 17 novembre 1993 n. 11351; cfr. pure Cass. 13 ottobre 2000 n. 13690, Cass. 30 agosto 2000 n. 11427 e Cass. 17 febbraio 1999 n. 1331, secondo cui il datore di lavoro è esente da responsabilità quando il comportamento del dipendente presenta i caratteri della assoluta imprevedibilità o dell’anomalia o dell’eccezionalità).

Ciò posto, accertata l’infondatezza dei primi tre motivi del ricorso, per quanto riguarda il quarto motivo, con il quale dalla ricorrente viene dedotto il vizio di motivazione di cui al n. 5 dell’art. 360, primo comma, c.p.c., dello stesso deve essere dichiarata l’inammissibilità.

Poiché XX. non indica quali fossero le richieste istruttorie, così definite, senz’altra aggiunta, sulle quali il Tribunale avrebbe omesso di pronunciare, la censura risulta dal tutto generica e non può essere presa in esame dalla Corte.

Avuto riguardo a tutte le considerazioni che precedono, il ricorso preposto da XX. deve essere rigettato.

Quanto alle spese del presente giudizio, mentre non deve essere emesso alcun provvedimento nei confronti dell’INAIL, attesa la natura della controversia e non essendo manifestamente infondata o temeraria l’impugnazione proposta da XX. (art. 152 disp. Att. c.p.c.), giusti motivi sussistono per compensare le spese stesse nei confronti dell’ACEA.

PQM

La Corte rigetta il ricorso, compensa le spese nei confronti dell’ACEA, nulla per le spese nei confronti dell’INAIL.

Roma, 9 aprile 2001 .

Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2001.



Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *