REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GUGLIELMO SCIARELLI – Presidente –
Dott. FILIPPO CURCURUTO – Consigliere –
Dott. VINCENZO DI CERBO – Consigliere –
Dott. VITTORIO NOBILE – Rel. Consigliere –
Dott. PIETRO CURZIO – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 25256-2006 proposto da:
L.C., nella qualità di coniuge erede di Z.C. già elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI GONZAGA 37, presso lo studio dell’avvocato B. S. rappresentata e difesa dall’avvocato … D.F.O., giusta mandato a margine del ricorso e da ultimo domiciliata d’ufficio presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;
– ricorrente –
contro
I.N.A.I.L – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, …(omissis) …
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 705/2006 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 30/05/2006 r.g.n. 599/05; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/06/2010 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;
udito l’Avvocato E. F. …
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARCELLO MATERA, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso del 6-6-2003 L.C. nella qualità di erede di Z.C. premesso che quest’ultimo, dipendente delle Poste Italiane con qualifica di operatore di trasporti e mansioni di autista al CMP di Catania, era deceduto in data 22-9-2000 a causa di infarto, deducendo che tale evento doveva considerarsi come infortunio sul lavoro e che aveva, invano, esperito la rituale procedura amministrativa, conveniva in giudizio l’INAIL chiedendone la condanna al pagamento della rendita ai superstiti.
L’istituto convenuto si costituiva chiedendo il rigetto della domanda.
Il Giudice del lavoro del Tribunale di Agrigento, con sentenza del 22-12-2004 – ritenuto che la ricorrente, dichiarata decaduta dalla prova testimoniale per mancata indicazione dei nominativi dei testi nel termine assegnato, non aveva fornito la prova del nesso causale tra l’evento e l’attività lavorativa svolta dal de cuius – rigettava la domanda.
La L. proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la riforma e deducendone la erroneità sia con riguardo al negato nesso di causalità tra infortunio e attività lavorativa sia in ordine alla disposta condanna alle spese del giudizio.
L’INAIL si costituiva e resisteva al gravame.
La Corte d’Appello di Palermo, istruita la causa con l’ordine all’lNAIL di depositare copia di tutta la documentazione sanitaria in suo possesso riguardante il decesso dello Z nonché a mezzo di CTU, con sentenza depositata il 30-5-2005, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava che la L. non era soggetta al pagamento delle spese del primo grado nei confronti dell’INAIL, confermava nel resto e compensava le spese di appello (ad eccezione di quelle di CTU che poneva a carico dell’INAIL).
In sintesi la Corte territoriale, rilevato che il primo giudice, avvalendosi dei poteri di cui all’art. 421 c.p.c. aveva assegnato alla ricorrente un termine di gg. 30 per indicare i nominativi dei testi da escutere, dichiarandola poi decaduta a seguito della mancata tempestiva ottemperanza, rilevava che giustamente era stata rigettata l’istanza di rimessione in termini in considerazione del comportamento colpevolmente inerte della ricorrente e della conseguente insanabile decadenza.
Nel merito, poi. sulla scorta delle conclusioni del CTU la Corte d’Appello escludeva che il decesso dello Z. potesse essere messo in relazione causale con l’attività lavorativa svolta dallo stesso.
Infine la Corte territoriale accoglieva il motivo di gravame rivolto contro la condanna alle spese di primo grado, rilevando la inapplicabilità, ratione temporis, nella fattispecie del nuovo testo dell’art. 152 disp. att. c.p.c.
Per la cassazione di tale sentenza la L. ha proposto ricorso con due motivi, corredati dai relativi quesiti di diritto ex art. 366 bis c.p.c, applicabile nella specie.
L’INAIL ha resistito con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 115. 116, 184 bis e 421 c.p.c, censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato la richiesta di rimessione in termini, “omettendo di verificare che, a seguito del venir meno del rapporto interno di immedesimazione tra parte e difensore ed essendo conseguentemente eliminata la possibilità di imputare alla parte comportamenti negligenti del difensore, la parte medesima può essere rimessa in termini, posto che il mancato esercizio del potere processuale (nel caso di specie di indicazione dei testi) non è dipeso da causa alla stessa imputabile, avendo comunicato la lista dei testi al medesimo difensore prima della sua revoca ed avendo appreso dal nuovo difensore che l’adempimento non era stato portato a termine”.
La ricorrente deduce poi che, comunque, al riguardo, “il Giudice era tenuto in virtù del disposto dell’art. 421, 2° comma c.p.c, ad esercitare i poteri di ufficio addirittura pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa”, dovendo, altresì, “esplicitare le ragioni per le quali ha reputato di non fare ricorso all’uso dei poteri istruttori”.
Il motivo è infondato.
In base al principio già affermato da questa Corte (v. Cass. 21-8-2004 n. 16529, Cass. 17-5-2006 n. 11505, v. anche, fra le altre, Cass. S.U. 13-1-1997 n. 262. Cass. 7-11-2000 n. 14465, Cass. 7-3-2001 n. 3343, Cass. 7-4-1981 n. 1978) e che va qui nuovamente enunciato, “Nel rito del lavoro, qualora la parte abbia, con l’atto introduttivo del giudizio, proposto capitoli di prova testimoniale, specificamente indicando di volersi avvalere del relativo mezzo in ordine alle circostanze di fatto ivi allegate, ma omettendo l’enunciazione delle generalità delle persone da interrogare, tale omissione non determina decadenza dalla relativa istanza istruttoria, ma concreta una mera irregolarità, che abilita il giudice all’esercizio del potere-dovere di cui all’art. 421, comma primo cod. proc. civ..
Conseguentemente, in sede di pronuncia dei provvedimenti istruttori di cui all’art. 420 stesso codice, il giudice ove ritenga l’esperimento del detto mezzo pertinente e rilevante ai fini del decidere, deve indicare alla parte istante la riscontrata irregolarità, che allo stato non consente l’ammissione della prova, assegnandole un termine per porvi rimedio ed applicando, a tal fine, la particolare disciplina prevista dal comma quinto della norma da ultimo citata, col corollario della decadenza nella sola ipotesi di mancata ottemperanza allo spirare di questo termine, espressamente dichiarato perentorio dal medesimo comma. Peraltro, in particolare, l’art. 244 cod. proc. civ. attribuisce al giudice un potere discrezionale circa l’assegnazione di un termine per formulare o integrare le indicazioni relative alle persone da interrogare o ai fatti sui quali debbono essere interrogate e, una volta che il giudice abbia esercitato tale potere, definisce il termine come perentorio, precludendo così la possibilità di concedere ulteriori dilazioni, per cui l’inosservanza di detto termine produce la decadenza dalla prova, rilevabile anche d’ufficio e non sanabile nemmeno sull’accordo delle parti”.
Nella fattispecie, in conformità con tale principio, legittimamente la Corte d’Appello, attesta la intervenuta “insanabile decadenza”, ha ritenuto che “giustamente il primo giudice ha rigettato l’istanza di rimessione in termini”, avanzata dal nuovo procuratore della L.
Né può la ricorrente al riguardo invocare il “venir meno del rapporto interno di immedesimazione tra parte e difensore”, a seguito della revoca della procura, al fine di eliminare “la possibilità di imputare alla parte comportamenti negligenti del difensore”, considerato che in base al principio costantemente affermato da questa Corte, e che va anche qui nuovamente enunciato, “le vicende della “procura alle liti” sono disciplinate dall’art. 85 cod. proc. civ., in guisa diversa dalla disciplina della procura al compimento di atti di diritto sostanziale, perché, mentre nella disciplina sostanziale è previsto che chi ha conferito i poteri può revocarli (o chi li ha ricevuti dismetterli) con efficacia immediata, invece né la revoca né la rinuncia privano – di per sé – il difensore della capacità di compiere o di ricevere atti.
La giustificazione di tale diversa disciplina consegue – appunto – dal fatto che i poteri attribuiti dalla legge processuale al procuratore non sono quelli che liberamente determina chi conferisce la procura, ma – come quelli in cui si concreta lo “ius postulandi” – sono attribuiti dalla legge al procuratore che la parte si limita a designare.
E, in base all’art. 85 cod. proc. civ., ciò che priva il procuratore della capacità di compiere o ricevere atti, non sono dunque la revoca o la rinuncia di per sé soli, bensì il fatto che alla revoca o alla rinuncia si accompagni la sostituzione del difensore” (v. Cass. 29-10-1997 n. 10643, nonché, fra le altre, Cass. 11-4-2001 n. 5410, Cass. 14-4-2004 n. 7073. Cass. 20-10-1989 n. 4226, Cass. 10-2-1987 n. 1383).
Del tutto priva di rilevanza, sulla intervenuta decadenza, risulta, quindi, la circostanza dedotta dalla ricorrente dell’aver comunicato la lista dei testi al difensore prima della sua revoca e dell’aver poi appreso dal nuovo difensore che l’adempimento non era stato portato a termine.
Parimenti, poi, la ricorrente non può lamentare al riguardo il mancato esercizio dei poteri istruttori d’ufficio al fine di rimediare alla detta decadenza, verificatasi a seguito della mancata indicazione dei testi allo spirare del termine come sopra concesso ai sensi dell’art. 421 comma primo c.p.c, essendo esclusa, come si è detto, la possibilità di ulteriori dilazioni e non potendo, comunque, i detti poteri “sopperire alle carenze probatorie delle parti, né tradursi in poteri d’indagine e di acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale” (v. Cass. 8-8-2002 n. 12002, Cass. 21-5-2009 n. 11847, Cass. 22-7-2009 n. 17102, Cass. 15-3-2010 n. 6205).
Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando violazioni di legge (art. 2 d.P.R. 1124/1965, del d.P.R. 303/1956 e succ. mod., del d.lgs. 626/1994 e degli artt. 2697 c.c. e 112, 113, 115, 116, 414, 416, 421 e 441 c.p.c), in sostanza lamenta che la Corte d’Appello “con motivazione contraddittoria ed insufficiente non ha preso in considerazione gli sforzi giornalieri compiuti e gli stress emotivi o psicologici subiti dal lavoratore deceduto, in violazione anche del principio di equivalenza causale delle condizioni stabilito dall’art. 41 c.p.”, ed in particolare deduce che “erano in re ipsa nello svolgimento delle mansioni de quibus un complesso di condizioni”, per cui “in presenza di fatto notorio non vi era necessità di prova a carico della ricorrente” ed “in ogni caso detta prova era raggiunta attraverso presunzioni”.
Infine la ricorrente lamenta che “la Corte d’Appello non avrebbe potuto impedire all’odierna ricorrente di coltivare, quantomeno, la prova richiesta con l’esame autoptico”.
Anche tale motivo non può essere accolto.
Per quanto riguarda il richiesto esame autoptico la Corte d’Appello, con motivazione sufficiente e logicamente corretta (che del resto neppure è stata specificamente censurata dalla ricorrente) lo ha ritenuto inutile “stante l’evidente stato di decomposizione degli organi dello Z a circa sei anni dal suo decesso”.
Per il resto la Corte territoriale, con valutazione di merito sorretta da adeguata motivazione, ha rilevato che il CTU “dopo aver messo in evidenza che sulla base della scarna ed esigua documentazione presente nel fascicolo di causa si evince che lo Z è deceduto per arresto cardio-circolatorio probabile e che non vi sono elementi per poter stabilire se il decesso sia da attribuire ad arresto cardio-circolatorio dovuto ad un evento infartuale acuto o ad eventi di altra natura patologica di natura cardiaca o anche extracardiaca, ha ritenuto ipotizzabile che la morte sia da attribuire a cause naturali non ascrivibili all’attività lavorativa espletata dal de cuius”.
Peraltro in particolare la Corte d’Appello, sulla scorta delle conclusioni del CTU, ha sottolineato che “anche volendo solo ipotizzare che il decesso sia stato causato da una patologia cardiaca che abbia determinato l’arresto cardio – circolatorio (cardiopatia ischemica. morte improvvisa di natura aritmica, ecc.) esso non potrebbe essere messo in relazione con l’attività lavorativa svolta dal lavoratore non essendo soddisfatti i criteri medico-legali per la configurazione dell’infortunio sul lavoro”.
Tale accertamento di fatto, che in sostanza da un lato ha evidenziato la mancata dimostrazione della circostanza che la morte sia stata causata effettivamente da un infarto e dall’altro ha escluso che anche l’eventuale infarto potesse in qualche modo essere messo in relazione causale con l’attività lavorativa, non è in contrasto con il principio affermato da questa Corte in base al quale, proprio in tema di infarto del miocardio, anche lo sforzo fisico del lavoratore in condizioni tipiche e abituali in condizioni tipiche ed abituali di lavoro e diretto a vincere una resistenza peculiare delle condizioni di lavoro e del suo ambiente, può assurgere a causa violenta allorché con azione rapida ed intensa arrechi una lesione all’organismo del lavoratore medesimo” (v. Cass. 21-5-2003 n. 8019, Cass. 6-11-1995 n. 11559), atteso che, comunque, come pure è stato precisato, “l’azione violenta che può determinare una patologia riconducibile all’infortunio protetto deve operare come causa esterna, che agisca con rapidità e intensità, in un brevissimo arco temporale, o comunque in una minima misura temporale, non potendo ritenersi indennizzabili come infortuni sul lavoro tutte le patologie che trovino concausa nell’affaticamento che costituisce normale conseguenza del lavoro” (v. Cass. 20-6-2006 n. 14119).
In mancanza, quindi, nella fattispecie, della prova di elementi concreti che potessero configurare una “causa violenta” nel senso richiesto, legittimamente la Corte di merito ha confermato il rigetto della domanda, e tale decisione resiste alla censura della ricorrente, che in sostanza invoca genericamente la mancata considerazione del fatto notorio (che, peraltro, non può dar luogo ad alcun sindacato in sede di legittimità, v. Cass. 17-1-2003 n. 609) o, quanto meno, della prova presuntiva., con riferimento agli “sforzi'” e agli “stress” giornalieri propri della “attività di autista addetto allo scarico di pesanti pacchi” (circostanze insufficienti ad integrare un infortunio sul lavoro).
Il ricorso va pertanto respinto.
Infine sulle spese non si provvede, ratione temporis, in base al testo originario dell’art. 152 disp. att. c.p.c. vigente anteriormente al d.l. n. 269/2003, conv. in l. 326/2003, essendo la nuova disciplina applicabile ai soli ricorsi conseguenti a fasi di merito introdotte in epoca posteriore all’entrata in vigore dell’indicato decreto legge (2-10-2003) (v. Cass. 30-3-2004 n. 6324, Cass. 12-12-2005 n. 27323).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, nulla per le spese.
Roma 24 giugno 2010