L’artrosi è una degenerazione delle articolazioni con cui tutti, avanzando l’età, sono costretti a confrontarsi; dolori a grandi e piccole articolazioni possono rendere difficoltose le attività quotidiane e, a volte, rendere penosa o addirittura impossibile la deambulazione.
In effetti, il costo per il consumo di FANS, farmaci antinfiammatori non steroidei, è uno dei capitoli di maggiore peso nel SSN. Senza contare il costo economico, ma anche sociale ed umano, correlato agli effetti collaterali delle terapie antinfiammatorie.
Ad oggi, non esistono farmaci che con certezza assoluta, impediscono, o almeno riducono significativamente, l’insorgenza e la progressione della degenerazione artrosica articolare.
Sul numero 17/2011 di Nature Medicine è stato pubblicato uno studio condotto da un gruppo di ricercatori di università americane, ma di cui faceva parte anche il il professor Leonardo Punzi dell’Università di Padova, che ha cercato di sviscerare i meccanismi fisiopatologici che innescano il processo degenerativo e poi lo perpetuano, aprendo prospettive terapeutiche del tutto nuove.
Lo studio ha posto l’accento sul ruolo ruolo fondamentale di un gruppo di proteine coinvolto nei fenomeni immunitari e nella protezione dalle infezioni chiamato “complemento“.
Sarebbe infatti l’eccessiva attivazione del complemento a livello delle cartilagini articolari ad innescare una serie di fenomeni biochimici e cellulari di tipo infiammatorio a loro volta in grado di iniziare, perpetuare e aggravare i fenomeni osteoartrosici.
Lo studio ha infatti evidenziato che in animali da esperimento con assenza genetica o con blocco del sistema del “complemento” i processi osteoartrosici non si producevano o erano molto rallentati rispetto ai controlli, compresa l’artrosi post-traumatica.
Si è quindi prospettato che sia una “disregolazione” del sistema del “complemento” a generare e i fenomeni artrosici e ciò potrebbe provocare l’apertura di un filone di ricerca farmacologica totalmente nuovo che produca farmaci di nuova concezione, certamente efficaci e, spero, meno “costosi” in ogni senso. I tempi necessari non sono però certamente brevi; gli eventuali nuovi farmaci, se il filone di ricerca si dimostrerà fecondo, non si vedranno prima di 10 anni.
Link all’abstract dello studio: http://www.nature.com/nm/journal/v17/n12/full/nm.2543.html
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